Il capolavoro di correttezza di Sinner e Alcaraz: lo sport che non ha bisogno di arbitri

Hanno concesso all'altro punti pesantissimi con leggerezza, come un'ovvietà: una lezione di correttezza da tramandare ai posteri

Sinner Alcaraz

Spain's Carlos Alcaraz embraces Italy's Jannik Sinner after winning the men's singles final match on day 15 of the French Open tennis tournament on Court Philippe-Chatrier at the Roland-Garros Complex in Paris on June 8, 2025. (Photo by Dimitar DILKOFF / AFP)

I bambini. Questo è il momento in cui possiamo, dobbiamo, tirar fuori i bambini: il più trito e abusato trucchetto morale della retorica sportiva. L’esempio “da mostrare in tutte le scuole”, sempre a portata di mano per forzare il concetto. Ma sì: Sinner-Alcaraz, durata 5 ore e mezza, è una di quelle lezioni di vita (sport è riduttivo) che andrebbe inserita nei programmi ministeriali. Visione obbligatoria, tipo “cura Ludovico”. Ragazzi, questo è il fair play, questa è la correttezza, questa è l’onestà, questa è la compostezza. Sì, di tigna, di sacrificio, di abnegazione, di agonismo. Anche, certo. Ma oltre la prestazione sportiva – smodata, fuori scala – Sinner e Alcaraz hanno confezionato un capolavoro di integrità di cui forse è il caso di parlare.

E per parlarne dobbiamo fare un piccolo passo indietro, di contesto. Durante la finale del Roland Garros dell’anno scorso, quella in cui Alcaraz fece fuori Zverev 6-3 2-6 5-7 6-1 6-2, nel momento clou del match, al quinto set, Alcaraz stava servendo avanti 2-1 ma era 15-40. Batte una seconda, che il giudice di linea chiama out. Zverev avrebbe messo a segno il controbreak, ma il giudice di sedia scende, controlla il segno dice che no, la palla è buona, ha sfiorato la riga. Si ripete il punto, Alcaraz se lo porta a casa, vince un game fondamentale nell’economia della partita, va in vantaggio 3-1. L’occhio di falco nel frattempo proietta in tv le immagini: è fuori. Ma non c’è niente da fare. Sappiate che Zverev ancora ci rimugina: a Shanghai – ottobre inoltrato – il tedesco si sfoga con l’arbitro Mohamed Lahyani, per un’altra chiamata dubbia: “Non è possibile! Ogni finale del Grande Slam che perdo è colpa vostra e dei vostri errori. Io sono qui a lavorare come un animale,  e voi decidete le partite. Così ho perso al Roland Garros”. Erano passati cinque mesi. Funziona così, normalmente.

Ecco, la finale tra Alcaraz e Sinner non è stata una partita “normale”. Non hanno solo lottato per cinque ore e mezzo senza mai perdere contegno – mai un gesto fuori posto, una parola lasciata andare, un cenno di acrimonia se non uno sbuffo qua e là. Si sono letteralmente arbitrati da soli. Come in un torneo di quarta categoria, ma senza le perversione dilettantesca del “furto” costante e reiterato che ai livelli più bassi di qualsiasi sport è un istinto incontrollabile.

Hanno assorbito le asperità dell’ultimo torneo al mondo che ancora usa l’essere umano per chiamare una palla dentro o fuori (per una questione politica, di immagine, di marketing, o anche solo perché i rulebook dell’Itf glielo consentono), e hanno rilanciato: hanno fatto a meno dell’arbitro, Eva Asderaki. Quando la greca scendeva dalla sedia i due avevano già sentenziato, doveva solo vidimare. Tipo Cassazione, terzo grado di giudizio.

Un atteggiamento inedito, per continuità e scelta dei momenti. Perché qualsiasi altro giocatore del circuito – anche il più corretto, non per forza quelli più caldi e polemici – lascia sempre all’arbitro il peso della scelta. Djokovic avrebbe “interferito” con il body language, ad esempio. Quando un arbitro scende in campo lo fa cercando di essere il più possibile imparziale, ma le reazioni dei giocatori contano eccome. Invece Sinner ed Alcaraz anticipavano ogni chiamata, toglievano l’impaccio. No grazie, come se avessimo accettato. Concedendo all’avversario un 15 in situazioni di punteggio decisive, con una nonchalance quasi incomprensibile. Piccolo esempio:

Erano a inizio secondo set, Sinner serve una seconda forte al centro sul 40-40, la palla è chiamata out dal giudice di linea. Alcaraz sarebbe andato a palla-break, ma si avvicina e dopo aver guardato il segno concede il punto all’avversario. Era sotto di un set, e avrebbe potuto approfittare di una chiamata sbagliata. Macché.

In un’altra situazione, quando Asderaki va a controllare il segno di una palla buona chiamata out, e sentenzia “Jannik, is good”, Sinner si è già voltato, è già andato via, ha già dato il punto ad Alcaraz. A quel punto cosa avrebbe dovuto fare l’arbitro? Ribaltare tutto? “Jannik, dove vai? Guarda che la palla è fuori davvero!”.

Ovviamente persino un santo come Sinner all’ennesimo errore di una partita lunghissima e faticosa piena di sviste arbitrali, ha avuto da obiettare quando sul 3-2 30-pari, si è accorto tardi che il servizio era lungo. Ha segnalato l’errore quando il punto era stato giocato e la palla corta dello spagnolo lo aveva già inchiodato facendogli perdere il game. Una riedizione dell’errore che a Monte Carlo contro Tsitsipas gli costò il torneo. Sinner appena stizzito è una sorta di apparizione mistica. Hanno fondato religioni per molto meno. Ma anche quello è stato il sintomo di una correttezza disarmante.

Questo sarebbe il momento dei paragoni facili. Come si sarebbero comportanti Connors e McEnroe? E Djokovic? Rune? Ma ancora di più: il calcio. Chi s’è assuefatto a definire “sportivo” il comportamento di un qualunque calciatore in una qualunque partita di pallone, come può rapportarsi serenamente con Sinner-Alcaraz? E’ una grammatica incompatibile. Per cui evitiamo.

E torniamo a usare i bambini. Sinner e Alcaraz hanno ontologicamente tradotto “sport” in tutte le sue accezioni possibili. E non l’hanno fatto come atto dimostrativo, un’esibizione. Hanno fabbricato una prova di forza vicendevole dentro un recinto sovrumano di irreprensibilità e rettitudine, come se quello fosse l’unico binario comportamentale possibile. Senza eccezioni, alibi, deroghe. Bambini: questo è lo sport, puro e semplice. “Semplice” è la parola chiave di questa lezione definitiva.

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